Il 2020 non ha fatto cose buone
Poche parole su questo inizio di nuovo anno lento, che più lento non si può. Su queste ore che scorrono in attesa di momenti migliori. Su cosa penso dell’essere socievoli, essere social e sul senso di comunità
Essere Social
“Focalizzati su come essere social, non su come usare i social” ho appena letto su un post di Marketing Espresso (li trovate su Instagram con tante utili tips ogni giorno). Un consiglio di marketing che c’entra davvero poco con un post in cui pensavo di condividere considerazioni sul periodo, ma forse qualcosa c’entra: per la mia natura, infatti, ‘essere social’ è vitale. Lo è sempre stato, non sto parlando quindi di strategie di marketing, ma di attitudine. Ho cominciato a usare le comunità digitali, in modo istintivo (perché spinta dalla mia natura sociale, appunto) fin dalle prime chat su Kataweb (alzino la mano le persone di una certa età, come me, che si ricordano di quel periodo). Poi i social sono spuntati nel mondo del mio lavoro (il giornalismo di settore), qualche anno dopo, ma l’approccio dei più era ancora sperimentale e dettato da intuizioni personali più che da regole.
Foto di Gaia Panozzo.
I social network e il mio lavoro
Così i più esperti, gli addetti ai lavori, quelli che studiavano (e continuano a farlo) il mondo del marketing hanno cominciato a usare i social in modo sempre più professionale e a insegnare a farlo. Mi sono subito iscritta ai primi corsi di social media marketing (vedi Digital Update) e ho partecipato ai primi bar camp (vedi Freelance Camp nel 2013) perché capivo di partire svantaggiata su due fronti: quello anagrafico e, da giornalista, il rifiuto un po’ snob verso tutto ciò che riguardava il mondo del marketing. Voglio ricordare che quando lavoravo in redazione, soprattutto all’inizio (parliamo degli anni 90), marketing, pubblicità e redazioni giornalistiche erano molto più separati di adesso. Non ho mai smesso di seguire corsi, perché una delle prime cose che impari quando inizi a studiare la comunicazione digitale e i social network in particolare, è la loro velocità di evoluzione e, comunque sia, la sensazione che a me resta addosso è quella di non essere mai aggiornata abbastanza. Poi, dopo qualche anno, ho anche tenuto dei corsi, perché l’altra certezza è che i social network professionalmente servono a tutti, ma ogni singola persona si trova a un livello di comprensione e conoscenza diverso. C’è sempre qualcuno da cui imparare e qualcuno a cui insegnare qualcosa.
[Tra l’altro, buttando un occhio al 2021, ho un corso in programma ad aprile allo IED di Roma, ma mi sembra ancora molto lontano e ne parlerò più avanti.]
L’eredità del mio 2020
Torniamo al senso del post, se mai avessi pensato di dargliene uno e alle mie considerazioni su questo passaggio immaginario tra un anno e l’altro. Si tratta delle considerazioni nate dalla mia esperienza del 2020: ci tengo a sottolinearlo perché credo sia inevitabile, per chiunque, fare paragoni con il proprio vissuto che, però, è diverso da quello di chiunque altro. Per quanto mi riguarda, quindi, lo zaino con cui sono passata dal 2020 al 2021 contiene:
- un senso di frustrazione fisica dato dalla perdita di gusto e olfatto a metà marzo, ora piano piano in via di recupero, ma ancora lontanissimi dalla normalità. O almeno da come mi ricordo essere la normalità. In poche parole gli odori ancora quasi non li sento, i sapori, dipende.
- un senso di spossatezza mentale costante credo dato dal dispendio di energie utilizzate per cercare di restare in equilibrio e non cedere a stati d’animo troppo negativi. La spossatezza, però, provoca blocchi su molti fronti: creatività ed emotività, essenzialmente.
- un senso di fastidio e irritabilità verso le varie forme di resilienza a tutti i costi: sto molto meglio quando incontro una persona che, come me, depone le armi dal “qualcosa di buono comunque è successo” a favore di una condivisione sincera di fragilità e debolezze. A questo proposito condivido un passaggio di un articolo di Giuliano Castigliego dal titolo “Voltare Pagina“:
“Parlare delle emozioni che la pandemia e le sue ripercussioni scatenano in noi, dar loro un nome, esprimerle, condividerle, ascoltare quelle altrui, discuterne, è un modo per superare la paralisi della paura, la trappola della rabbia. Nel dialogo possiamo realizzare che la tristezza è un sentimento comune, normale, che può affliggere tutti noi quando ci sentiamo impotenti di fronte a un evento doloroso e inquietante che ci priva dei nostri consueti punti di riferimento.”
- un senso di claustrofobia a tutto tondo. Che riguarda i viaggi che non si sono più fatti, ma via via che non si riescono neanche più a immaginare. E poi riguarda anche la vita quotidiana di chi, come me, lavora da casa, ridotta a pochi spostamenti tra le stanze e condivisa con lezioni scolastiche, esami universitari, preparazioni dei pasti, faccende domestiche.
- l’impossibilità di riuscire a godere, davvero, delle cose che normalmente avrei accolto e vissuto con gioia. Ho fatto le vacanze, sono una persona fortunata, quindi. Quello che evidentemente a me non è riuscito (a molte persone sì e meno male per loro) è staccare la testa da quello che stava e sta comunque accadendo nel mondo.
- ho mantenuto il senso di comunità. Quello non è andato perso, nonostante la distanza fisica. Le videochiamate, le telefonate, gli incontri dal vivo come e quando possibile. Non me la sento di dare alla pandemia il merito delle mie relazioni, esistevano già, diciamo che forse ci siamo tenuti strette quelle dove abbiamo trovato più capacità di scambio sincero e senso di accoglienza. E questo a me succede anche con persone che non conosco dal vivo, ma con le quali condivido idee, gusti, passioni e pensieri online.
- ho goduto dei legami famigliari. Anche questi però c’erano già. Ho avuto, però, più tempo e occasioni diverse per goderne. Ho anche fatto un po’ di fatica, ho ospitato mio padre, positivo, per 6 settimane a casa durante il primo lockdown: sono cambiati i rapporti tra me e lui? Forse sì e di questo sono contenta, ma lascia sempre un po’ il tempo che trova dare un senso alle cose col senno di poi.
- ho frequentato due corsi su argomenti che non riguardano direttamente il mio lavoro, anzi, uno proprio non riguarda nulla di razionale. Ecco vedi che puoi ringraziare il 2020 per qualcosa? E invece no che non lo ringrazio. Ringrazio me stessa che, nonostante tutto, ho cercato (un po’ annaspando) di impiegare il tempo vuoto.
In sintesi, a mio parere, il 2020 non ha fatto cose buone: siamo noi, ognuno con le sue caratteristiche, che abbiamo cercato di rattoppare strappi e ferite, quelle sì, dovute a un evento globale inaspettato e potente.